«Capitolo 2
Dubbi
Decisamente il soffitto era da tinteggiare. Non avevo fatto altro che studiarlo centimetro dopo centimetro, incapace di rilassarmi.
Avrei dato qualunque cosa perchè Liz non fosse confinata in un’aula dove peraltro avrei dovuto trovarmi proprio in quel momento. Avevo bisogno di parlare con qualcuno o mi sarei messa a urlare. Passai in rassegna i possibili candidati. La prima fu mia madre. Quanto mi piaceva. Allegra, briosa, innamorata della vita più di chiunque altro avessi mai conosciuto. Era una madre perfetta, una moglie perfetta, la migliore amica che una persona possa desiderare d’incontrare. Io mi ero sempre divertita con lei. In inverno andavo a scuola. Il pomeriggio un po’ di compiti e poi l’aiutavo al negozio. Quasi sempre, se non c’erano clienti, ci infilavamo nel retro bottega e creavamo piccoli capolavori liberando la fantasia. D’estate invece, soprattutto il lunedì, giorno di chiusura, fuggivamo a Monterosso e ci immergevamo nelle acque cristalline per catturare con gli occhi, decine di pesci dalle forme e dai colori tra i più diversi. A volte nuotavamo fino alla scoglio che si trovava a pochi metri dalla spiaggia vicino alla stazione, per guadagnare un po’ di tintarella mentre l’una intratteneva l’altra con pettegolezzi e battute che finivano quasi sempre in un mal di stomaco da troppe risate. Lei mi prestava il vestito di organza verde mela e io glielo soffiavo tanto spesso da non darle quasi il tempo di ritirarlo dalla lavanderia. Lei invece rubava jeans tagliati e infradito dai miei armadi perché le sembrava che la ringiovanissero di un decennio. L’adoravo. Leila Biondi era decisamente la mia preferita, sotto ogni punto da vista. Ma ora. Ora non potevo raccontarle nulla. Troppe spiegazioni, troppi particolari scomodi. Le raccontavo tutto sì, ma senza violare i confini della sessualità. In fondo la mamma è sempre la mamma. Mi sarei vergognata nel rivelarle quanto mi sentissi compiaciuta e attratta dalle attenzioni improvvise del ragazzo più ambito della Liguria e di quanto la mia mente rischiava di rimanerne coinvolta.
Il secondo candidato fu Ronny il mio gatto persiano color carota. Ottimo ascoltatore non c’è che dire, ma certamente poco utile nello scambio di opinioni. Mi sforzai. Purtroppo non mi fidavo di nessun’altro, tranne che di Liz; ogni minima notizia rischiava di diventare l’argomento di tutte le conversioni e di tutti i pettegolezzi, esattamente quello che Alex voleva evitare.
Sbuffai e mi girai su un fianco. Non avevo scelta, dovevo aspettare.
Il suono del citofono mise fine all’agonia.
Mia madre non ci mise molto a salire. Abitavamo al primo piano di una vecchia casa con le persiane azzurre scolorite. Sala, due camere da letto, un cucinino. Non era molto grande ma chiunque entrasse non poteva che rimanere a bocca aperta. Su alcune pareti avevamo dipinto enormi quadri di paesaggi marini e su quelle lasciate volutamente bianche avevamo appeso piccoli capolavori in gesso: cappelli da marinaio, vecchie barche e pesci colorati con maestria. Mi sentivo in una favola quando varcavo la soglia. Non c’avevo mai fatto l’abitudine. Avevo sempre continuato a considerarlo un luogo magico. La mia camera poi, era arredata come se si trattasse della cabina di una nave: mobili in legno color ciliegio e tessuti a righe bianche e blu. Intorno alla finestra avevo modellato un grosso cerchio per farla somigliare ad un’enorme oblò. Sulla parete di fronte alla porta, c’era un timone e su quella accanto, uno specchio rotondo incorniciato in un tipico salvagente bianco e rosso come quelli che si vedono nei cartoni animati intorno alla pancia di Paperino. Quello era il mio regno personale, il posto dove adoravo rifugiarmi da piccola, quando immaginavo di salpare per chissà quali mete.
«Ciao amore!» Mia madre mi chiamava così sin da bambina.
«Ciao mamma. Scusami non ho ancora preparato niente. Non ho fatto caso all’ora.»
Mi baciò sulla guancia.
«Non preoccuparti piccola ci penso io. Dimmi solo che cosa ti va di mangiare e lo preparo in un baleno.»
«Per la verità non ho molta fame. Basteranno un po’ d’insalata e una mozzarella.»
«Che ne dici di sogliole e patate? Il pesce l'ho comprato stamattina. Gianni mi ha detto che è freschissimo.»
«Vada per le sogliole, ma preferisco un po’ d’insalata alle patate.»
Sorrise mentre indossava il grembiule.
«Agli ordini madame.»
Quell’espressione mi ricordò improvvisamente Alex.
«Mamma, hai provato a chiamarmi prima?»
«Si l’ho fatto, ma mi ha risposto il tuo amico. Come si chiama? Alex…»
Storsi le labbra pronta a dare spiegazioni.
«Mi ha detto che per errore gli era rimasto il tuo cellulare nella tasca e che a te era rimasto il suo. Dice che forse è successo quando te lo ha prestato per chiamare Elisa.»
Bugiardo. Se lo ero ripreso. Rimasi in silenzio a riflettere. Che me lo avesse fregato dopo? E perché poi? Ecco che il principe azzurro mi si trasformava in cleptomane. E se l’avesse fatto per sbirciare fra i miei segreti? Niente cleptomane, solo ficcanaso. E se voleva prendersi i numeri delle mie amiche per ottenere informazioni su di me? Ok, niente ficcanaso, ma pericoloso maniaco. Rabbrividii scuotendo il capo per cancellare l’ultimo pensiero. Stavo diventando paranoica. Non mi restava che chiederglielo quando me lo avrebbe restituito.
«Ma perché ti ha prestato il suo cellulare? Sei di nuovo senza credito?»
«Veramente no. È che si sente cavaliere e ha voluto risparmiarmi la chiamata.»
Leila sorrise maliziosa.
«Quanto approvo un po’ di sano ritorno alle buone maniere.»
La mente ritornò alle immagini della mattina. Lui che mi offriva il braccio, che mi prestava il cellulare, che pagava la colazione e che mi apriva lo sportello. Effettivamente erano attenzioni che un ragazzo di diciotto anni solitamente non ti riserva. Tornai a guardare mia madre. Il sorriso malizioso non era scomparso dal suo volto.
«Beh?! Cos’è quel sorrisetto? Cos’altro ti ha detto?»
Leila si muoveva veloce in cucina. Prendeva sicura gli ingredienti per riporli subito dopo. Un colpo di spugna, uno di straccio, un giro alle sogliole con la pala forata. Tutto era in ordine come se dietro i fornelli ci fosse la fata turchina. Mentre mi rispondeva era quasi tutto pronto per essere servito.
«Nulla di particolare. Mi ha spiegato dello scambio dei cellulari, ha detto che alla fine non si è rimasto perché, dato che non eri stata un granché bene non gli sembrava il caso di assillarti con la matematica e…»
«E?»
Rise e seguitò a tacere. Le piaceva farmi impazzire.
«Dai mamma…»
Partii con il solletico, quasi sempre convincente visto che era uno dei suoi punti deboli. In effetti non resistette che pochi secondi, tra una smorfia e un balletto improvvisato per sottrarsi alle mie mani.
«Ok, ok mi arrendo.»
Alzò le mani.
«Mi ha avvertito che se ti fossi sentita meglio ti avrebbe invitata per cena.»
«Ehi! Andateci piano. Alla fine non c’è niente tra di noi. Non è che adesso, tu me lo trascini in famiglia…»
Rise forte mentre mi stritolava in uno dei suoi abbracci affettuosi.
«Ma figurati, amore. Dimmi solo se è carino»
«Più bello di quanto tu possa immaginare. È il ragazzo più ambito della scuola. Infatti non capisco perchè si interessi a me. So che per te sono bellissima mamma, ma cerca di essere obiettiva. Non sono certo una che può attirare l’attenzione di uno così.»
Si fece seria, ma senza perdere la naturale dolcezza nell’espressione.
«Rose non c’è bisogno di essere appariscenti. A volte basta essere particolari, diversi dagli altri perché qualcuno ci noti. Tu sei… I tuoi occhi parlano, le tue mani creano meraviglie e il tuo cuore è sincero. Forse è proprio la normalità a distinguerti.»
Mi soffermai a pensare ma non potei dire di essere sicura di aver capito.
Guardai fuori dalla finestra. Il cielo era assolato, anche se il freddo non accennava a mollare. Mancava ancora un mese all’inizio della primavera e allora le vie di Deiva avrebbero cominciato a colorarsi degli oleandri rosa, bianchi , rossi e gialli. Avrebbero riempito le strade di allegria e di aromi inebrianti. Il tepore avrebbe reso più piacevoli le passeggiate sul lungomare. Mi immaginai a sfiorare il tubo blu che faceva da ringhiera lungo la sabbia, camminando accanto ad Alex che mi sorrideva con il suo viso meraviglioso. Scrollai subito il capo allontanando l’idea. Meglio non illudersi.
Le sogliole volarono nel piatto. Una terrina di ceramica bianca era al centro del tavolo colma fino all’orlo di scarola riccia, trevisana e cuori di lattuga, le mie preferite.
Avevo una fame da lupi dal momento che la nausea di poco prima era stata solamente una menzogna. Mi sentii di nuovo in colpa. Raccontare a mia madre delle bugie: non mi ero mai comportata così.
Forse era colpa della vicinanza di Alex. Mi faceva un effetto! Per quanto mi sforzassi ancora non ero riuscita a ricordare quasi niente dei momenti che avevano preceduto il mio incontro con lui. Soprattutto non riuscivo a capire cosa mai mi avesse spinto a scendere alla fermata di Lavagna e perché Liz non fosse con me. Non ci separavamo mai nel tragitto da casa a scuola e viceversa. Anche lei abitava a Deiva, vicino alla chiesa di Sant’Antonio Abate. Ci incontravamo tutte le mattine sugli scalini della stazione e ci lasciavamo sotto il mio citofono. Non riuscivo davvero a realizzare il motivo di quella strana separazione. Cercai di lasciarmi il mistero alle spalle. Forse mi stavo fissando. Però perché non riuscivo a ricordare? Magari Liz lo sapeva! Peccato non avere il mio cellulare e poterglielo chiedere. Sospirai e mi rassegnai ad aspettare. Più tardi avrei fatto una puntatina a casa sua per domandarglielo di persona.
Di nuovo stesa sul letto, di nuovo a studiare il soffitto. Lo stomaco pieno non aveva cancellato l’ansia.
Improvvisamente il cellulare di Alex prese a suonare. Lì per lì non lo riconobbi. Il mio aveva una suoneria del tutto diversa, ma poi me ne resi conto.
Controllai sul display il numero. Era il mio.
«Pronto.»
«Rose, sono Alex, ti prego riattacca e fai il tuo numero con il mio telefono.»
«Ma no non preoccuparti.»
«Aspetto ciao!»
Nemmeno il tempo di replicare o provare ad insistere. Aveva già riattaccato. Mi arresi e chiamai. Sentii un solo squillo prima del suo dolce tono di voce.
«Ehi! Ciao.»
«Ciao testone!»
Rise.
«Chissà che ti costava lasciarmi pagare una chiamata.»
«Allora, come stai?»
Sorrisi della sua finta ingenuità
«Non prendermi in giro. Lo sai che non sono stata male davvero.»
O forse sì. Maledetto cervello addormentato.
Non ricordavo niente.
«Ok, ma mi fa piacere sapere se ti senti abbastanza in forze da sopportarmi stasera.»
Tacqui imbarazzata.
«Solo una pizza e due chiacchiere, ti ridò il cellulare e ti lascio in pace promesso.»
«Figurati. Mi fa piacere.»
«Sicura? Non è che ti sto troppo addosso?»
«Ma no figurati. Dimmi a che ora passi.»
«Veramente sono qui sotto. Avevo paura che mi dicessi di no e in tal caso volevo restituirti subito il cellulare.»
Rimasi letteralmente a bocca aperta.
«Adesso è troppo presto però. Non posso uscire ora e ripresentarmi dopo cena. Devo studiare e…»
«No, principessa. Hai ragione. Scendi solo un attimo. Ti ridò il telefono e volo via.»
«Ok arrivo.»
Riappesi ma non mi mossi da dov’ero. Per un attimo tutto mi apparve strano, incomprensibile. Alessandro Clerici non mi aveva mai degnata di uno sguardo e ora mi stava appiccicato come la carta moschicida. La memoria faceva cilecca, non ricordavo perché non ero andata a scuola. Provai a riflettere ma mi sembrava di avere il vuoto nella testa. Non riuscivo a spiegare niente, non c’erano risposte alle mie domande.
Sbuffai e mi lasciai cadere sul letto. Forse mi stavo facendo troppi problemi.
Due colpi leggeri alla porta mi fecero trasalire.
«Rose ci sei?»
«Dimmi mamma che c’è?»
«Ha citofonato il tuo compagno, quello del cellulare. Ha detto che ti aspetta di sotto.»
«Si mamma, grazie. Vado subito.»
Non solo stranamente interessato, anche fin troppo impaziente direi.
Mi insospettii. I conti non mi tornavano per niente.
Alex mi aspettava appoggiato alla portiera della sua BMW.
«Ciao.»
Mi sorrise appena mi vide comparire al cancello, ma subito dopo parve invaso dalla tristezza, mentre mi porgeva il cellulare.
«Ciao. Grazie. Che c’è?» Raccolsi il telefonino dalla sue mani scambiandolo con il suo.
«Scusami Rose, non so come dirtelo, ma…»
Sembrava davvero imbarazzato.
«Beh! Dillo e basta.»
Teneva gli occhi bassi.
«Non posso venire stasera a prenderti per la famosa pizza.»
Rimasi in silenzio. Lì riprendevano corpo tutte le mie teorie. Non so perché, ma era troppo bello perché durasse. Mi sentii una stupida ad essermi fatta venire dei dubbi riguardo il suo strano interesse per me, dubbi infondati visto che già stava facendo un passo indietro.
«Guarda che non fa niente.»
Finalmente alzò lo sguardo puntando il mio. Mi sentii sciogliere come un pupazzo di neve sotto il sole di primavera. Era indubbiamente fantastico e anche se poco prima mi ero fatta un mare di storie, adesso il bidone mi lasciava un po’ di amarezza.
«Fa invece. Sono proprio un idiota. Ho fatto tanto il brillante con te oggi, poi ti buco così. Davvero scusa, ma mi ero scordato di aver già preso un impegno che non posso rimandare. L’ho ricordato mentre scendevi. Devo accompagnare mia madre a…»
Scossi il capo, decisa ad interrompere la cascata di scuse.
«Davvero non fa niente. Non voglio che ti giustifichi. Ci conosciamo appena, anzi, quasi per niente. Ci andremo alla prossima bigiata ok?»
«Perché pensi di bigiare domani?»
«Assolutamente no. Comunque devo prepararmi per il compito di venerdì. Maledetta matematica, sai com’é…»
«Quindi per domani…»
«Non c’è fretta Alex. Com’è capitato oggi ricapiterà un incontro fuori da scuola e allora andremo a mangiarci la nostra pizza ok?»
Ascoltavo le mie parole come se udissi il discorso di una pazza. In fondo non mi sarebbe costato nulla rimandare alla sera successiva accontentando lui e soprattutto me. La verità era che rifiutavo di farmi delle illusioni su di lui. Era troppo per una come me. Non mi andava di innamorarmi di uno che probabilmente si era impuntato sulla provincialotta e solo perché era stufo di scarrozzare meraviglie da copertina sulla sua macchina di lusso. Non mi andava di trasformarmi nel suo capriccio per poi soffrire quando la carrozza sarebbe tornata una zucca, i cavalli bianchi topi e mi sarebbe rimasta una scarpetta di cristallo da tirarmi in testa mentre mi ripetevo quanto ero stata stupida. Meglio evitare, ferma e decisa.
«Beh! Adesso vado. Scusami ma stavo studiando.»
Mi prese le mani dolcemente fra le sue ed io mi sentii morire.
«Ecco ti sei offesa.»
«Ma quale offesa. Solo non posso cazzeggiare tutto il giorno.»
Sorrise rassegnato.
«Ok, messaggio ricevuto. Allora quando ci vediamo?»
Mi divincolai dalla presa e cominciai a camminare a ritroso in direzione del cancello.
«Domani… Sarò a scuola.»
Lo vidi sospirare, ma feci finta di niente. Gli girai le spalle e varcai di nuovo il cancello grigio senza voltarmi indietro.
Era trascorsa circa mezz’ora da quando avevo varcato la soglia quando il citofono prese a ronzare di nuovo. Un tuffo al cuore mi colpì. Avevo fatto la preziosa, ma la speranza che lui non rinunciasse era viva come una ferita aperta.
«Chi è?»
Il cuore mi batteva tanto forte da farmi credere che sarebbe schizzato dal petto.
«Sono Liz»
Morta. Delusa.
Chiusi gli occhi e respirai a fondo.
«Rose.. Ci sei..»
Mi scrollai a forza dall’inspiegabile sconforto che mi aveva investita.
«Scusa Liz, sali!»
Dannazione.
Pochi istanti dopo il citofono ronzò di nuovo. Forse il protone non si era aperto. Mi affacciai per lanciare a Liz le chiavi dalla finestra. Succedeva spesso. Se ci fosse stato mio padre sarebbe partito con la solita tiritera che il portone andava sostituito e blah, blah, blah.
Il davanzale era gelato. Il sole mi investì, tanto che ci misi qualche secondo in più per mettere a fuoco la mia amica. Quando ci riuscii vidi uno sconosciuto con una felpa nera e il cappuccio tirato quasi a coprire il viso, camminare velocemente nella sua direzione e sfiorarle la fronte con le labbra prima di passare oltre e fuggire via.
Lei rimase inebetita per pochi istanti. Ero sicura che si sarebbe voltata per riempire di insulti il cretino, ma mi deluse. Rimase in silenzio, sembrava sognante e il suo sguardo era sereno quando me lo rivolse attenendo le chiavi.
«Ehi! Liz ma chi era quello?»
Lei seguitò a guardarmi.
«Quello chi?»
«Quello che ti ha baciata in fronte?»
«Boh!»
Era completamente rimbambita.
Sospirai.
«Lascia perdere. Sali!»
Rinunciai. Troppe stranezze. Troppe per la mia vita monotona e ripetitiva. Lanciai le chiavi. Mentre rientravo lo sguardo mi cadde su una BMW serie 3 coupè parcheggiata sull’altro lato della strada e la malinconia mi pervase.
Di nuovo a pensare e a ripercorrere tutto quello che era successo con Alex. Un minuto mi pentivo di aver rifiutato il suo invito, il minuto dopo mi convincevo che avevo fatto bene. Un ragazzo così non poteva davvero volere me e tutto il suo improvviso interessamento non poteva che essere il crudele capriccio di chi, come lui, ha già tutto quello che vuole. Non sentii nemmeno Liz entrare.
«Ciao Rose.»
Mi voltai di scatto in direzione della voce.
«Ciao Liz.»
Lei lasciò la borsa sulla sedia della scrivania, appese il giubbotto e si buttò sul letto accanto a me, perfettamente a suo agio. Liz era di casa. Passava certamente più tempo nella mia camera che nella sua.
Ci conoscevamo sin da piccole. Sua madre lavorava dal fornaio sotto casa mia. Quanti giochi, scherzi e segreti avevamo diviso, nonostante le nostre personalità fossero state sempre ben distinte. Lei più spregiudicata, più libera. Spensierata e serena. Non perdeva mai il controllo e sapeva perfettamente quello che voleva dalla vita. Io invece l’indecisione fatta persona, la collera improvvisa, la fifona. La sicurezza contro l’incoerenza, il sorriso contro la paura, la spensieratezza contro il caos generale. Adoravo Liz. Era il mio perfetto opposto e forse per questo l’amica ideale.
«Beh! Perchè non sei venuta a scuola stamattina?»
La guardai come se fosse impazzita.
«Come? Ci siamo sentite, te l’ho spiegato.»
Rimase in un silenzio assorto.
«Sei sicura?»
«Sicura di che?»
«Che ci siamo sentite e che me l’hai spiegato?»
La guardai sempre più sbigottita.
«Ma sei scema?»
Non mi guardava. I suoi occhi fissavano il pavimento, la mente era altrove.
«Beh! Ci sei?»
«Sì! Scusa Rose... Mi sa che sono scema davvero.»
Continuava a fissare il pavimento come se, mentre mi parlava, stesse cercando di mettere a fuoco l’immagine di un puzzle i cui pezzi erano in disordine.
«Liz, che c’è?»
«Non lo so. C’è che non mi ricordo niente di stamattina. Buio, vuoto completo, come se avessi perso la memoria.»
Scoppiai a ridere.
«Ok! Cosa ti sei fumata?»
«Cretina! Non ho fumato niente. Anzi non sono per niente tranquilla. Sicuramente sono andata a scuola perché sono fuori di casa, ma non ricordo niente di quello che è successo prima.»
A quel punto stavo fissando lo stesso punto sul pavimento che tanto attirava lo sguardo di Liz, come se la chiave del mistero fosse nascosta fra quelle due precise assi di parquet.
«Ma il deficiente che ti ha appena baciato in fronte? Chi era?»
«E a me lo chiedi? Chi l’ha mai visto? Aveva il cappuccio tirato fin sopra gli occhi e andava di fretta.»
«Credevo lo insultassi! Beh! Si, insomma… Era una reazione prevedibile.»
«Boh! Non ci capisco più niente.»
Rimasi qualche istante a riflettere e improvvisamente ricordai che anche Alex mi aveva sfiorato la fronte con e labbra quella mattina, sul binario della stazione di Lavagna perdendo l'equilibrio. Lì per lì mi era parso un gesto qualunque, ma adesso... Nemmeno io ricordavo nulla di ciò che mi era accaduto, buio completo fino a quel momento. Ebbi l’istinto di raccontarlo a Liz ma mi fermai. Certamente era una coincidenza e poi cosa poteva c’entrare il bacio di Alex con quello dello sconosciuto che lo aveva stampato sulla fronte di Liz.
«Quindi non ricordi nulla di Alex?»
«Alex chi?»
Sorrisi. Anche lei era proprio fuori quel giorno! Incrociai le gambe sotto di me pronta a snocciolargli il racconto della mattina, schiacciata dal pensiero delle conseguenze devastanti che avrei scatenato. Liz era tutto fuorché discreta.
Raccontai e lei rimase ad ascoltarmi come un assetato nel deserto del Sahara. Sembrava un sogno a entrambe. Poi giunti al mio rifiuto, vi furono i francesismi di miss finezza ad esprimeva la sua opinione sul punto.
Dopo un’ora ci rotolavamo ancora sul letto ridendo. Era sempre divertente e bellissimo dividere con lei le mie emozioni.
Un dubbio però rimaneva e tornò ad affacciarsi alla mente rodendomi come un tarlo fino a tarda sera, quando ormai Liz se ne era andata da un pezzo: l’immagine di quel bacio in fronte e i ricordi mattino, volati via e svaniti senza un motivo, sia i miei sia quelli di Liz.
L’orologio digitale sul comodino segnava l’una e mezza di notte quando il cellulare prese a vibrare facendomi sobbalzare. Lo raccolsi senza nemmeno guardare:
«Cosa vuoi Liz?» Risposi con la voce intorpidita.
«Rose.. Sono Alex..»
Di colpo spalancai gli occhi, sveglia come se non avessi mai dormito in vita mia.
«Pronto, sei ancora lì?»
«Sì, ci sono.» Risposi mentre gli occhi focalizzavano l’ora sulla radio sveglia.
«Scusami principessa, so che è tardissimo, ma non riuscivo a dormire.»
Serrai le palpebre incredula e attesi che riprendesse, mentre le dita pigiavano sui bottoni al lato del cellulare per abbassare il volume della voce. Se mia madre si fosse accorta che parlavo al telefono a quell’ora avrebbe dato i numeri.
«Ti prego non prendermi per pazzo, ma stavo ripensando ad oggi e mi chiedevo se in qualche modo ti ho offesa. Ti prego di dirmelo se è così.»
«Alex perché mi sarei dovuta offendere. Sei stato un cavaliere perfetto direi.»
«Sì, ma alla fine ti ho tirato un bidone.»
Serrai le palpebre.
«Alex te l’ho già detto oggi. Non devi preoccuparti.. Ci mangeremo la famosa pizza appena ce ne sarà occasione.»
«A dir la verità pensavo di farmi perdonare questa notte.»
Deglutii esterrefatta.
«Cosa intendi dire^»
«Rose posso rapirti per un’ora?»
Sì, rapiscimi per il resto della vita.
«No, Alex. Non posso uscire di notte. I miei…»
«Non glielo dirai. Ti prometto che non si accorgeranno di niente.»
«Non se ne parla. Non sono capace di inventare bugie, non fuggo la notte e se si svegliassero chiamerebbero l’esercito, la C.I.A. e l’F.B.I. per farmi cercare, certo dopo essere stati rianimati da un paramedico del 118.»
«Un’ora soltanto. Se vuoi chiama Liz e diglielo almeno qualcuno saprà che sei con me, se questo ti fa stare più tranquilla. No voglio farti del male, solo mostrarti una cosa.»
Serrai le palpebre per cercare di scacciare la folle idea di accontentarlo. Non avevo mai commesso gesti tanto spregiudicati. Non ero il tipo da sgattaiolare la notte, anche se mi scoprii a cercare una soluzione per non svegliare nessuno. Se avessi aperto la porta mia madre se ne sarebbe accorta in meno di un secondo. Scossi il capo per cercare di cancellare il pensiero. Non se ne parlava nemmeno.
«Rose sei ancora lì?»
«Ci sono.»
Avevo ancora gli occhi chiusi.
«Ti prego. Ci tengo davvero.»
«No.»Respirai un istante.
«Non posso davvero. Se i miei se ne accorgessero avrei finito di vivere oltre al fatto che si spaventerebbero a morte.»
«Non se ne accorgeranno. Ti prego fidati. Vieni con me. Ti chiedo solamente un’ora.»
Dannato Alessandro Clerici. Perché era così bello e desiderabile? Perché la sua voce era così suadente e convincente. Perché io ero così idiota, fragile e superficiale?
«Alex..»
«Ti prego...»
Sbuffai arresa.
«Alex, anche volendo non ne sarei capace. Non sono mai uscita così di nascosto. Sono sicura che farei un casino madornale che sveglierebbe tutta Deiva Marina e anche se il rumore non fosse esagerato mia madre si sveglierebbe anche se avessi impiegato un secondo in più a respirare.»
«Ci penso io! Salgo a prenderti! Tu vestiti al volo.»
«N..»
Click. Aveva già riattaccato.
«Merda!»
Imprecai. Alla fine aveva vinto lui. Lanciai un’occhiata fuori dalla finestra. Era buio pesto. La radiosveglia segnava la una e quarantacinque del mattino. Ebbi un moto di rabbia, ma non per aver perso la partita. Ce l’avevo con me stessa perché non volevo ammettere che ero elettrizzata.
Mi alzai al volo e mi infilai i Jean's a vita bassa e il maglione che avevo preparato per la mattina seguente. Preparavo sempre tutto la sera prima di andare a letto. Non mi piaceva l'idea di svegliarmi presto per decidere come vestirmi. Adoravo dormire e quindi mi godevo tutto il tempo dedicato al sonno, fino all'ultimo istante.
Il silenzio era totale. Anche il minimo respiro sembrava un rumore assordante. Improvvisamente qualcuno sfiorò la porta della mia stanza. Subito mi infilai sotto le coperte vestita e finsi di dormire convinta che fosse mia madre.
Tenevo gli occhi chiusi. Un respiro mi solleticò l’orecchio.
«Ehi! Andiamo Rose o ci scopriranno.»
Mi girai verso di lui. I suoi lineamenti meravigliosi erano inconfondibili anche alla luce della luna. Gettai via le coperte. Lui cercò la mia mano per invitarmi a seguirlo.
«Ma Alex, se…»
Cercai di obiettare, mentre la forza di volontà mi veniva meno.
«Non ci sentirà nessuno te lo prometto. Tra un’ora sarai nel tuo letto a fare bei sogni.»
Mi sollevò di peso prendendomi tra le braccia.
«Chiudi gli occhi. Ogni principessa che si rispetti va rapita secondo l’etichetta.»
Sorrise, mentre ubbidivo.
Lo sentii muoversi anche se non avvertii altri rumori se non il suo respiro vicino al mio collo. Sembrava che i suoi piedi non toccassero nemmeno terra. La tentazione di aprire gli occhi era fortissima ma mi trattenni. Non sia mai che una principessa che si rispetti oppone resistenza al principe.
Quando l’aria fredda della notte mi investì, istintivamente mi rannicchiai contro il suo petto. Gli occhi sempre chiusi, le orecchie in ascolto. Con un gesto atletico aprì la portiera del mio cocchio e mi adagiò sul sedile anteriore. Aprii gli occhi sul cruscotto della BMW mentre Alex si sedeva al mio fianco.
Deiva Marina era deserta. Addormentata e tranquilla, cullata dal rumore lento della risacca che nessuno era intento ad ammirare. Non sapevo cosa pensare, né riuscivo a rendermi conto di come mi sentivo. Ero combattuta tra la paura di essere scoperta e il fascino misterioso di quell’avventura inattesa. Il mio principe rapitore sembrava tranquillo. Di tanto intanto si voltava a guardarmi, limitandosi a sorridere e probabilmente in attesa che fossi io a rompere il silenzio. Le sue mani scattavano sicure cambiando le marce. I piedi lavoravano di pedale, le dita sul volante spingendo la BMW lungo le curve, fino a raggiungere il piccolo molo d’imbarco dove d’estate attraccavano le imbarcazioni per le gite alle cinque terre.
«Posso sapere perché mi hai rapita?»
Cercai di rivolgergli uno sguardo severo, anche se l’incrocio con i suoi occhi meravigliosi sciolse tutte le mie difese.
«Voglio farmi perdonare il bidone te l’ho detto.»
«Non ce n’è bisogno Alex davvero.»
«Invece sì!»
Sorrise scultoreo come un’opera d’arte perfetta.
La BMW percorse un ultimo breve tratto, scivolando sulla strada come la lama di un coltello sopra una fetta di pane e burro. Il piccolo molo ci si presentò nel buio. Le onde riflettevano i fari gialli puntati verso il basso. Allungai lo sguardo e mi accorsi di un undici metri a motore fermo ad attendere qualcuno e sopra un uomo che cercava di attirare l’attenzione.
«E quello chi è?», domandai appiattendomi contro il sedile di pelle.
«Tranquilla è mio fratello. Lui ci porterà come un fulmine verso la nostra sorpresa.»
M’irrigidii. Amavo il mare. Era il mio compagno fedele sin da bambina, ma un po’ lo temevo in inverno, di notte e al fianco di un quasi sconosciuto.
«Ti prego non dire niente, lasciami fare.»
Probabilmente lesse la preoccupazione nei miei occhi.
«Non temermi Rose. Ci parliamo da qualche ora soltanto ma sai bene chi sono. Frequentiamo la stessa scuola da tre anni e non ho mai riempito le copertine dei giornali per aver ucciso qualcuno.»
«Non è questo…», esitai.
«E allora cosa?»
«Converrai con me che non è proprio normale quello che mi sta succedendo…»
Presi fiato.
«Io sono una ragazza normale, fin troppo. Oserei dire noiosa a giudicare dal nulla che accade nella mia vita. E ora sono in macchina con il ragazzo più desiderato della scuola che, dopo una chiacchierata e un caffè, viene a rapirmi di notte e mi porta via con una barchetta diretta chi sa dove…»
Lui rise forte.
«Cavolo! Ricky si offenderà a morte quando saprà che hai definito la sua “Nimbus 320 coupè” una “barchetta”.»
Mi sentii un po’ in imbarazzo. Il nome non cambiava l’idea che quella cosa galleggiante aveva scatenato nella mia testa. Sentivo solo odore di mistero e la pelle pungeva mendando segnali di pericolo.
Mi guardò di nuovo, intensamente e mi prese la mano.
«Tranquilla! Tra un’ora al massimo un’ora e mezza sarai sotto le coperte, al calduccio, ma prima voglio fare colpo su di te.»
Lo guardai stupefatta e lusingata dall’ultima affermazione.
«Non bastava una scatola di cioccolatini?»
La risata aperta di Alex fu contagiosa.
Non ebbi il coraggio di ribattere e accettai la mano che mi invitava a scendere dalla macchina.
Il fratello di Alex ci salutò con un cenno mentre scendevamo sotto coperta.
«Prego madame. Di sopra fa troppo freddo.»
Lo seguii.
Lui si muoveva lento ma sicuro.
L’arredamento della cabina somigliava a quello della mia camera. I tessuti bianchi e blu, il legno delle finiture e l’alluminio della cucina e dei profili... Inutile negare che mi sentii un po’ più a casa.
Alex camminava dietro di me.
.Mi sentii un po’ a disagio di fronte al letto a forma di trapezio, con le lenzuola bianche che profumavano di gelsomino.
«Niente paura principessa. Sono un cavaliere d’altri tempi. Non le mancherei mai di rispetto, né ci proverei quaggiù.»
Sorrisi, un po’ dispiaciuta ma decisamente sollevata.
Mi sistemai sul letto accovacciandomi per stare comoda. Lui si sistemò proprio davanti a me nella medesima posizione.
«Posso offrirti qualcosa?»
«No, grazie.»
Lui mi prese di nuovo la mano delicatamente. Era molto caldo. La sua pelle sembrava bruciare.
«Levati il giubbotto qui dentro altrimenti sentirai troppo freddo quando usciremo.»
Ubbidii senza protestare. Mi sembrava un’idea ragionevole.
«Tu non hai freddo?»
Mi guardò e sorrise.
«A dir la verità un po’, ma sono uscito in fretta e ho dimenticato di… coprirmi di più.»
«Mi dispiace, non voglio che ti ammali.»
«Non succederà.»
La barca prese a muoversi sulle onde, prima a scarsa velocità, poi con andatura più sostenuta ma sempre prudente.
«Immagino sia inutile chiedere dove stiamo andando...»
«Immagini bene.»
Sorrisi, tesa. Lui parve intuire.
«Ti prego rilassati. Sarà bello davvero. E dopo ti assicuro che non potrai più fare a meno di me.»
Feci una smorfia di compiacimento.
La barca impiegò una ventina di minuti prima di raggiungere la meta. Quando fummo in prossimità del luogo misterioso la sentii rallentare. La tensione ricominciò a farsi strada. Mille domande si affollarono nella mente senza risposta, quindi rinunciai.
«Arrivati?»
«Direi di sì, o almeno quasi.»
Lo vidi sollevarsi dal comodo giaciglio dove avevamo scambiato poche parole e offrirmi la mano per imitarlo.
Mi sollevai velocemente, tesa ma impaziente.
Non ci misi molto a riconoscere uno dei panorami che più amavo nonostante il buio stellato che riempiva la notte.
«Siamo a Porto Venere.»
«Esatto. Chissà quante volte ci sei stata.»
«Un milione direi. Il castello di Lord Byron è uno dei posti che amo di più.»
«Scommetto che non l’hai mai visto sotto la luce con la quale te lo presenterò stasera.»
«Sei proprio deciso a stupirmi allora?»
«No. Sono proprio deciso a conquistarti.»
Mi mise le mani intorno ai fianchi per aiutarmi a scendere dalla barca.
Rivolse un saluto veloce a suo fratello che, davo per scontato ci avrebbe aspettati per riportarci a casa, poi puntò lo sguardo nei miei occhi.
Non disse nulla. Mi prese la mano e sorrise mentre mi tirava leggermente invitandomi a seguirlo.
Il mio piede destro si mosse e la consapevolezza di quanto lui fosse irresistibile m’investì.
Ero nei guai.
Avevamo percorso appena qualche metro quando una voce ruppe il silenzio alle nostre spalle.
«Dove credi di andare maledetto bastardo?»
Sul volto di Alex si dipinse un sorriso divertito mentre si voltava a guardare il ragazzo che gli stava di fronte. Aveva una felpa bianca con il cappuccio tirato fin sopra gli occhi ma non faticai a riconoscere Daniele Di Maggio nel volto dell’intruso. Alex si mosse verso di lui. Gli occhi furenti mentre. Mi spinse dietro le sue spalle, quasi a volermi proteggere.
«Insulta pure uccellaccio del malaugurio!»
Gli si avvicinò lasciandomi indietro.
«Ho vintoooo», gli sibilò, come un serpente pronto all’attacco.
«Stronzate! Hai solo messo a segno un punto.»
Daniele rispose a voce bassa mentre si scopriva il volto ritraendo il copricapo con le dita arrossate dal freddo.
«Lei è mia adesso.»
«Non ancora maledetto!»
Alex rise forte. Poi tornò serio, digrignò i denti e fissò Daniele Di Maggio negli occhi.
«L’hai persa..».Gli girava intorno, sfiorandolo appena, facendogli sentire il suo respiro sul collo scoperto.
«Tutto si ripeterà come con Katia, con Mary e con Asia.»
Un grido di uccello ferito lacerò l’aria.
Mi voltai di scatto cercando di capire da dove fosse arrivato quel suono assordante.
Alex rise di nuovo. Daniele continuava a fissarlo mentre una lacrima gli rigò il viso.
«Piangi piccolino, piangi.»
«Bestia schifosa e viscida! Possibile che tu non sia capace della minima compassione?»
Con uno scatto rapido quanto l’attacco di un cobra Alex strinse la mano destra intorno al collo di Daniele. Io trasalii. Avrei voluto dire qualcosa ma le parole non riuscivano ad uscire dalla mia gola. Sentivo freddo e avevo paura. Non capivo di cosa stessero parlando e la tensione mi gelava il sangue.
«Vacci piano con gli insulti! Hai avuto la tua possibilità di annientarmi, ma non vali niente. Non so quale pezzo di idiota ti abbia messo dove stai, ma certamente se avessi un po’ d’amor proprio spariresti.»
Daniele cercò di reagire, ma più cercava di divincolarsi più la presa sembrava serrarsi intorno al suo respiro.
«Ti fermerò!», gracchio in un filo di voce.
«A sì? E come pensi di fare?»
Scoppiò in una risata sadica, mentre i suoi occhi diventavano rossi e la pelle incandescente.
«Basterà che lei…»
Non riuscì a proseguire. La stretta delle mani di Alex era troppo forte e le dita ustionanti.
«Che lei ami te?»
Scoppiò in un’altra risata prima di gettarlo a terra con forza. Sul collo di Daniele cinque bruciature.
«Ma dico ti sei visto? Sei ridicolo, sei insulso, vuoto…Desiderabile quanto un escremento di cane.»
Rise forte. Io seguitavo a rimanere ferma, incapace di muovere un muscolo.
Alex si avvicinò lentamente a Daniele, ancora steso a terra con le mani sulla gola dolorante.
«Ringrazia solo che non ti abbia ucciso un’ora fa. Se ti ho lasciato in vita è solo perché godo di più a vedere quelli come te contorcersi di sofferenza ogni volta che perdono la partita.»
Daniele si sollevò a fatica su un gomito.
«Non avrai anche lei. Dovessi morire per difenderla.»
Sul volto di Alex si dipinse un sorriso sarcastico.
«Come vuoi cherubino. Inizia a contare i giorni allora. Adesso vattene. Mi stai rovinando la serata e la stai spaventando.»
Daniele si sollevò da terra.
«Rose.»
Lo guardai, senza fiatare. Alex gli si avvicinò di nuovo.
«Ah! Ah! Mossa non consentita!»
Daniele tacque. Strinse i pugni contro le ginocchia e gridò di rabbia, dedicandomi un’ultima breve occhiata prima di fuggire via. Sparì imboccando una viuzza stretta sulla sinistra.
Quando Alex mi raggiunse non avevo il coraggio di guardarlo. L’aria gelida mi frustava le orecchie. La poesia, era svanita.
«Rose…»
Non lo guardai. Lui mi prese il mento fra le dita sollevandomi il viso, invitandomi a mettere i miei occhi nei suoi.
«Scusa! Questo non faceva parte della sorpresa.»
«Cosa voleva Daniele Di Maggio da te?»
Sospirò sorridendo mentre mi accarezzava lentamente il contorno del viso, spostandomi i capelli. Il suo tocco era leggero e mi solleticava la pelle. Era piacevole e delicato. Non sembrava la stessa mano che aveva lasciato quei segni sul collo di Daniele solo pochi minuti prima.
«Rivangare vecchi rancori.»
«Quali rancori?»
«Te li racconterò un giorno. Questa non è l’occasione giusta. Ho altro in mente per conquistarti, che non le storie uno sfigato geloso.»
«A chi ti riferivi quando hai detto quelle cose a proposito di perdere e…»
Non riuscii a finire. Anche l’altra mano aveva raggiunto il mio viso. Teneramente mi stringeva le guance carezzandole con le dita.
«A te. Daniele Di Maggio è interessato a te, come lo era delle ragazze che hanno preferito me a lui.»
Sorrisi, un po’ lusingata dal sentirmi l’oggetto della contesa. Era la prima volta che mi capitava.
«C’ha visti stamattina alla stazione di Lavagna e se l’è presa vedendoci andare via insieme. Spero di non sembrarti presuntuoso e spero tu non ti faccia un’idea sbagliata su di me. Sono solo un ragazzo come gli altri e se mi piace una ragazza non esito solo per uno sfigato.»
«Non essere cinico.»
«Ok, ma nemmeno ottuso! Io vivo la mia vita e se a lui non sta bene, non posso farci niente.»
Rivisitai con la mente le immagini della scena a cui avevo assistito, pesando le parole ed i loro significati. I gesti. La violenza che Alex aveva messo nei gesti.
Arretrai di un passo sottraendomi alle fusa delle sue dita adesso delicate.
«Parlavate di me e delle altre ragazze come se si trattasse di una stupida macchina vinta a poker.»
Non rispose e s’irrigidì.
«Scusa!»
«Non è a me che hai lasciato un regalo sul collo!»
Abbassai la voce e lo sguardo.
«…Almeno… Non ancora.»
Lui mi guardo esterrefatto.
«Non dirai sul serio?»
Si avvicinò di nuovo.
«Rose, volevo difenderti. Divento cattivo quando mi toccano sul vivo. Daniele Di Maggio non è l’idiota che tutti credono. È pericoloso. Io lo conosco da quando eravamo bambini.»
Sospirò, guardando lontano.
«Ok! È venuto sotto casa mia prima che venissi da te stanotte. È venuto a minacciarmi che se non ti avessi lasciata in pace la mia macchina sarebbe finita in mare con me e te a bordo.»
Una risata isterica mi uscì di gola.
«È di Daniele Di Maggio che stiamo parlando Alex… Tutti lo considerano uno sfigato, un idiota. Definirlo pericoloso mi sembra la più abominevole delle cazzate.»
Strizzò le palpebre e serrò i denti.
«Certo. Il povero coglione. Quello da prendere per il culo e da compatire. Ma nessuno sa che è stato curato per problemi comportamentali e che, non so come, è uscito indenne da un’accusa di aggressione ai danni di una di quelle ragazze che ho nominato prima.»
Il suo tono si fece aspro, quasi risentito.
«Lui era il mio vicino di casa. Abbiamo giocato per anni insieme. Gli volevo bene, era il mio migliore amico, ma poi ha cominciato ad essere geloso dell’interesse che le ragazze dimostravano a me e non a lui. Più crescevamo, più io venivo cercato e lui evitato. Si è chiuso in se stesso e non è più voluto uscire con me. Poi il suo stato emotivo è degenerato e ha cominciato a combinare guai di tutti i tipi fino a desiderare le ragazze che frequentavo e a minacciarle. Se una ragazza mi piace, lui la vuole a tutti i costi, fino a fare piazzate come quella di prima e anche peggio.»
Arrossii per la sua affermazione, mentre rabbrividivo per il racconto.
«Non voglio che ti ronzi intorno. Non voglio che ti accada nulla.»
Non lo guardai, troppo imbarazzata per sostenere i suoi occhi.
«Hai anche detto: “Lei è…»
«Mia?»
Annuii senza guardarlo. Lui mi sollevò di nuovo il mento come aveva fatto poco prima.
«Scusa! È che mi piace pensarlo.»
Arrossii di nuovo.
«Lo so: fantasie di un presuntuoso. Però se la piantiamo di parlare di quel pazzo e mi lasci continuare con la mia sorpresa, forse…»
Lasciò quell’affermazione a mezz’aria, colmandola di sottintesi.
Sorrisi e mi lasciai andare.
«Ti prometto che non ti accadrà nulla principessa. Sono pronto al duello verso chiunque osi avvicinarsi.»
«E se volessi un altro cavaliere?»
Mi rivolse uno sguardo dolcemente offeso, mentre sorrideva.
«Li batterò tutti!»
Mi prese la mano e cominciò a camminare archiviando il discorso.
Lo seguii senza più fiatare. Non ero convinta di quel racconto, ma decisi di mettere a tacere la ragione senza più riflettere.»
VAI AL CAPITOLO 3Edited by gold rose - 30/12/2009, 19:24