| WhitePorcelain |
| | Salve a tutti! Sono tornata, anche se con un nick totalmente diverso, ma sono sempre io. MissWhite, WhitePorcelain... non cambia poi molto, no? Fatto sta che, dopo secoli, per varie vicissitudini che non starò qui ad elencare, sono tornata con un nuovo - e sicuramente inatteso - capitolo, della serie "chi non muore si rivede". Spero che interessi a qualcuno (vi capirei perfettamente in caso contrario xD) e che piaccia.Home (un)sweet home Isabelle Appleton De Vigne tirò un profondo sospiro di sollievo. Non aveva più osato aprir bocca da quando aveva messo piede fuori dalla Sala Conferenze dell’Hotel Savoy. Intrufolatasi in uno dei lussuosi bagni, si era Smaterializzata con discrezione, ben attenta a non incrociare lo sguardo delle centinaia di medici babbani e Medimaghi che si erano riuniti lì quella sera. Adesso, al sicuro tra le mura del suo appartamentino ad Hertford Street, poteva permettersi di rilassarsi. Casa dolce casa. Lo sguardo le cadde sul salottino semibuio e un’ondata di calore che poco aveva a che fare col riscaldamento la invase. Non appena aveva adocchiato quel delizioso palazzo rosso scuro, con l’enorme vantaggio di trovarsi in una stradina a metà tra il Green Park e il St. James Park, aveva deciso che sarebbe stata quella la sua nuova casa. Sia per la ferma convinzione nelle cause sostenute dal suo capo, sia perché aveva vissuto per gran parte della propria vita nel mondo non magico, Isabelle aveva preferito affittare una casa nella Londra Babbana. Dopotutto, non le mancavano certo i mezzi per trovarsi in un lampo nel mondo magico, qualora ci fosse stata un’emergenza. Gli unici piccoli intoppi erano, di tanto in tanto, i troppi gufi che martellavano i vetri del suo appartamento all’ultimo piano e l’immensa quantità di una strana polvere proveniente inspiegabilmente dal caminetto, di cui la domestica si lagnava in continuazione. A parte questo, Isabelle non avrebbe mai rinunciato all’indipendenza di una casa propria, per quanto piccola e fuori mano fosse. Una piccola mansarda dal tetto spiovente che - non importava che fosse poco più di un monolocale - per i suoi standard disponeva di tutto ciò che si potesse mai desiderare: un bagno, una cucina, una stanza poco più grande delle altre che avrebbe poi diviso con un separé, in modo da ottenere sia salotto che camera da letto, e, naturalmente, un camino. L’aveva scelto principalmente per la sua collocazione, in quanto per nessuna ragione al mondo si sarebbe privata della sua abituale passeggiata quotidiana in un qualsiasi posto che fosse completamente immerso nel verde. Un’abitudine adottata durante l’infanzia e mantenuta durante i sette, lunghi anni all’Accademia di Beauxbatons. I magnifici colori, profumi e suoni dolci e ovattati che solo la natura poteva regalarle erano la sua dose di droga quotidiana. Avventurarsi tra i sentieri era come perdersi negli antri più profondi della mente. Solo lei, la terra e... i ricordi. Ricordi difficili da districare. Simili alle radici di una quercia, che non si diramano soltanto in superficie. Penetrano in profondità. Aveva rinunciato a tante cose pur di trasferirsi a Londra, ma c’era una sola cosa a cui sarebbe rimasta aggrappata con tutte le sue forze. L’unico ricordo che le restava di lei. Le spalle appoggiate alla porta in legno scuro, gli occhi socchiusi, Isabelle sorrise soddisfatta, ripensando a qualche ora prima. Qualunque fosse stato il motivo che aveva spinto il celeberrimo Albus Silente a chiedere un’urgente udienza con il suo capo, per lei non era stata che una fortuna. Il solo essere l’assistente di Hermione Granger era un onore immenso, ma sostituirla, seppur temporaneamente, durante una conferenza era una possibilità che non aveva neanche mai preso in considerazione. Si era stupita, e non poco, quando aveva ricevuto la conferma, due anni prima, da parte di Hermione stessa, di essere stata accettata come sua assistente al San Mungo. Innumerevoli volte si era chiesta perché mai la più promettente Medimaga d’Inghilterra, per di più Ambasciatrice tra i due mondi, avesse scelto proprio lei, una ragazza appena ventenne con esperienza pressoché nulla. Conoscendola, aveva capito che Hermione non avrebbe sopportato una collaboratrice più anziana di lei che, proprio in virtù degli anni in più, le desse ordini al posto di seguire le sue indicazioni. Caparbia com’era, l’avrebbe probabilmente licenziata su due piedi. Isabelle si diede una lieve spinta in avanti e mosse qualche passo nel buio. Si sfilò cappotto e sciarpa e con un gesto fluido li appese all’attaccapanni alla sua destra. «Lumos.» Le luci dell’appartamento si accesero di colpo. Arzigogolate lampade da terra e da scrivania illuminavano un soggiorno dalla forma circolare, l’arredamento essenziale e raffinato collimava con il suo gusto minimalista ma al contempo elaborato. Troppo buio, nella sua vita, per non agognare la soffice carezza della luce. Chiarezza. Spostando un sottile pannello scorrevole di vetro colorato, Isabelle entrò in camera da letto, comunicante con il soggiorno, e si avvicinò rapidamente alla scrivania. Scostò infastidita una ciocca dei capelli color mogano dal viso, e puntò lo sguardo sulla cornice argentata di una fotografia dai colori un po’ sbiaditi, ma che nella sua mente era più vivida della realtà stessa. Una donna cingeva tra le sue braccia due bambine, i folti capelli rossicci arruffati dal dolce soffio del Mistral di primavera. I leggeri abiti di cotone bianco spiccavano sullo sfondo di un enorme campo completamente ricoperto di lavanda. Viola, bianca e rosa. Le bambine, entrambe con un braccio paffuto attorno al collo della madre, si stringevano strette la mano, le labbra distese in sorriso. Perfettamente identico. Sorrisi che a quel tempo non tenevano conto del male del mondo. Sorrisi che ora bruciavano sulla pelle, arricciando le stesse labbra che tanti anni prima si riflettevano gemelle nel volto delle bambine. Reminiscenza di un dolore remoto, impossibile da dimenticare. Dita lunghe e affusolate colpivano nervosamente la superficie lignea dello scrittoio in noce massello. Se c’era una cosa che Isabelle proprio detestava, quella era l’indecisione. L’incertezza. Per quella stessa ragione, si concedeva raramente di pensare al futuro. O forse, c’era semplicemente troppo di irrisolto nel suo passato perché fosse possibile concentrarsi su ciò che doveva ancora avvenire. Il labbro inferiore torturato dai denti perlacei, i movimenti rigidi. Tracce indiscutibili di un dubbio insoluto. E la soluzione era a pochi centimetri dalla sua mano. La tentazione di una verità troppo a lungo nascosta, che le corrodeva l’animo. Infine, dettata dalla coscienza e dalla necessità: la scelta. La mano destra scattò ad aprire il cassetto prima che il cervello avesse consciamente inviato l’ordine ai muscoli, rivelando un piccolo scrigno di legno intagliato, sul cui coperchio era inciso rozzamente un ghirigoro che sembrava avere la forma di una piccola corona. Un dono di sua madre, il giorno in cui era partita per l’Inghilterra. Con un sonoro “clack” sollevò il coperchio e tirò fuori una pila di lettere, di cui alcune ancora sigillate. Con mano tremante, afferrò la prima, la più recente, e si soffermò a guardare il proprio nome vergato in una calligrafia elegante ed obliqua sulla busta. Aveva trascorso ore ad osservare quel misero involucro... pregno di verità. Della sua verità. Isabelle sfilò la sottile pergamena stropicciata, chiaro segno dell’infinità di volte in cui era stata aperta e ripiegata. Conosceva a memoria quelle dannate sette parole che da pochi giorni ricorrevano nei suoi pensieri, non permettendole di eliminare quel maledetto tarlo dalla testa. Un picchiettare continuo e fastidioso la distrasse. Proveniva dalla finestra del soggiorno, dove un’ombra in movimento si delineava in contrasto col candore delle tende. Isabelle lasciò cadere la lettera sulla scrivania e si precipitò a scostare le tende per aprire la finestra. Un gufo reale planò dritto ad un palmo dal suo orecchio, evitando per un pelo di cozzare contro uno dei cuscini, e si salvò in extremis per un atterraggio di fortuna sul bracciolo del divano. «Ma che vi danno insieme alle lettere, del FireWhiskey?» sbottò Isabelle, attraversando una nuvola di piume marroni e nere per raggiungere il gufo. Con poca grazia staccò la missiva dalle zampe artigliate e srotolò una pergamena scritta fitta fitta, che presentava una grafia contorta a lei sconosciuta, e solo delle sporadiche macchie d’inchiostro tradivano la fretta con cui era stata scritta.
Sig.na Isabelle Appleton, mi rincresce doverla disturbare a quest’ora tarda, ma purtroppo si è verificata una situazione piuttosto delicata che non può essere rimandata. Spero non me ne voglia. La Sig.na Hermione Granger è stata costretta a partire immediatamente e, trattandosi di una faccenda senza preavviso, non ha potuto preparare i bagagli. La prego, pertanto, visto e considerato che lei è l’assistente della Sig.na Granger, di sistemare nelle valigie gli indumenti e gli effetti personali della Sig.na. Il viaggio potrebbe prolungarsi per un paio di settimane o addirittura superarle, per cui la prego di regolarsi in modo da non farle mancare nulla. La Sig.na Granger al momento non è in condizione di mettersi in contatto con lei, tuttavia le spedirò io stesso delle regolari missive per informarla riguardo le sue condizioni di salute. Sono inoltre certo che apprezzerebbe se lei potesse continuare il lavoro che finora ha svolto in maniera così egregia, e colgo l’occasione per congratularmi con lei per l’ottimo risultato della conferenza di stasera. Arrivederci, Albus Percival Wulfric Brian Silente, Preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts
P.S.: Knut perde spesso l’equilibrio, ma non morde.
Isabelle spostò istintivamente lo sguardo sul pennuto, che ondeggiava il capo come se stesse per cadere in avanti. «Il nome calza a pennello... Non vali uno zellino.» (la battuta si riferisce al nome inglese di zellini, ovvero, appunto, “knuts”, ndA) sibilò inviperita la ragazza, infastidita che il perfetto ordine del suo appartamento fosse stato intaccato da quel gufo malandato. Tornò a fissare la lettera, rileggendola più e più volte. Infine si alzò di scatto, facendo sobbalzare Knut che rotolò definitivamente sul pavimento, e uscì di casa. Non prima di essersi infilata l’altra lettera in una tasca del cappotto.
Il terminal 3, riservato ai voli privati, dell’aeroporto di Ruzyněc di Praga era totalmente deserto a quell’ora della notte. Gli unici suoni che si udivano in quell’assoluto silenzio erano i loro passi che rimbombavano nella sala e l’attutito fruscio del corpo inerte di Dolohov trascinato senza tanta delicatezza da Draco. L’Indicibile, osservando con disgusto il Mangiamorte accasciato a terra, sollevò il braccio per pronunciare un incantesimo, quando cinque dita, esili ma decise, si strinsero intorno alla sua bacchetta. «Ti ha dato di volta il cervello?! Silente ha detto che non possiamo usare la magia!» Sarebbero potuti passare anche millenni, ma un Grifondoro era sempre un Grifondoro. E una rompicoglioni, restava sempre una rompicoglioni. Hermione Granger, per somma disperazione di Draco, incarnava entrambe le cose. Non si smentiva mai. «Silente non è stato attaccato da un Mangiamorte.» ribatté lui. «E comunque, a farsi i cazzi propri si campa cent’anni, quindi smettila di rompere le palle.» «Ma chi ti credi di essere?» domandò Hermione, su tutte le furie. Tralasciando il linguaggio scurrile e il tono sprezzante con cui le si rivolgeva, non riusciva proprio a capacitarsi dell’avventatezza del biondino che aveva di fronte. «Dobbiamo essere prudenti!» Ora stava davvero esagerando. Come diavolo era possibile che, anche a distanza di cinque anni, ogni volta che quella Mezzosangue apriva bocca gli faceva venir voglia di Schiantarla? «Dopo tre anni come Auror e due come Indicibile pensi che non lo sappia già?» ghignò beffardo Draco. Non sopportava che gli si insegnasse il proprio lavoro. «È proprio per la mia prudenza che adesso sei qui a blaterare e fracassare i coglioni. Forse avrei anche potuto lasciarti morire… Così, tanto per prudenza nei miei confronti.» «Vai a quel paese, Malferret.» «Prima le signore, Mezzosangue.» berciò lui, sfilando la bacchetta dalle dita della Grifondoro. Un Malfoy doveva essere un gentiluomo in ogni occasione, no? «Che intendi fare? Svegliarlo?» Santissimo Salazar, perché non aveva ancora fulminato fino all’ultimo Mezzosangue? «Secondo te che voglio fare, Granger?» sibilò inviperito, lanciandole un’occhiata gelida. «Spremi un po’ il tuo geniale cervellino e vedrai che magari tra dieci anni ci arrivi.» Hermione sollevò gli occhi al cielo, esasperata, ma decise - più che altro si impose - di non rispondere alla provocazione. Battibeccare poteva essere un passatempo accettabile, persino divertente qualche volta, ad Hogwarts, ma quella era una situazione del tutto diversa. «Qualunque cosa tu voglia fare, non qui. Potrebbe arrivare chiunque e non è il caso di farci trovare in queste condizioni. Potrebbero arrestarci...» «Non c’è nessuno.» soffiò l’ex Serpeverde a denti stretti. Hermione soffocò un singulto. Era pazzo. Ne era convinta. Anzi, ne aveva la totale certezza. «Questo non è un buon motivo...» aveva iniziato Hermione, il tono simile a quando, da Prefetto, toglieva punti alle matricole del primo anno che facevano uso dei Tiri Vispi Weasley, ma prima che avesse il tempo di finire la frase apparve una figura in fondo al corridoio. Un assonnato addetto alla sicurezza, che lanciò loro un’occhiata guardinga, indispettito perché non si aspettava di trovare qualcuno lì a quell’ora. Dal lato da cui proveniva, gli era impossibile scorgere il corpo di Dolohov, celato da una lunga schiera di posti a sedere. Hermione incrociò il suo braccio destro a quello sinistro di Malfoy, parandosi di fronte a lui e così coprendo con il proprio corpo la bacchetta sollevata a mezz’aria alla vista dell’uomo, e gli si premette addosso, sollevando abbastanza il tono di voce perché fosse sicura che anche l’altro sentisse. «... Non è un buon motivo per non accontentarmi e fare un viaggio alle Maldive, tesoro... Sai che è sempre stato il mio sogno...» Hermione si voltò, come se si fosse accorta solo in quel momento di una terza presenza, e lanciò un’occhiata angelica all’uomo, che si allontanò con un mezzo sorriso, probabilmente rimpiangendo i tempi in cui anche lui era così affiatato con la moglie. Non appena ebbe svoltato l’angolo, Draco ed Hermione sciolsero le braccia intrecciate come se si fossero ustionati. «Dicevi?» sibilò Hermione. Senza una parola, si infilarono cauti nel bagno più vicino, serrarono la porta ed insonorizzarono la stanza. Di certo non uno dei più puliti, il bagno era angusto e vi aleggiava un forte odore di fumo. Solo una grande finestra, sulla parte alta del soffitto scrostato, consentiva un minimo, e tuttavia insufficiente, ricambio d’aria. «Non c’è un dannato camino?!» sbottò d’un tratto il biondino. Hermione si voltò a guardarlo, sbigottita. «Non conosco le abitudini di voi Purosangue, ma solitamente noi persone normali non teniamo camini nei bagni!» Draco non si degnò neanche di risponderle e si avvicinò alla volta di una delle finestre, il vetro incrinato dava decisamente un tocco di squallore all’intera stanza. Si voltò, inferocito: «I gufi voi persone normali dove li tenete?» Allora Hermione capì. Voleva mettersi in contatto con Silente, e per farlo conosceva solo due metodi che non sarebbero risultati rischiosi, o perlomeno solo in parte, in quel frangente: la Polvere Volante per apparire parzialmente nel camino del preside, o, meno immediato e senz’altro più pericoloso, inviargli una lettera. «Non a portata di mano.» rispose. «Ma fortunatamente noi abbiamo questo.» Hermione frugò in borsa e ne estrasse un oggetto identico a quello che lui aveva ricevuto poco prima di partire. Draco aggrottò le sopracciglia, interdetto. Dal poco che ricordava - ogni qualvolta l’argomento prendesse una piega “babbana”, il suo interesse scemava di colpo -, serviva per chiamare qualcuno, ma non era sicuro di cosa significasse. Avrebbe usato una specie di Incantesimo di Appello? Hermione aprì lo sportellino del cellulare e cercò nella rubrica il numero di Silente; poco prima di premere il tasto verde che avrebbe dato avvio alla chiamata, però, si bloccò, incerta. «È tardi, potremmo disturbarlo... Forse è meglio chiamare domattina...» «Certo.» asserì Draco, sarcastico. «Però aspettiamo almeno dopo colazione, non sarebbe carino importunarlo e magari fargli andare di traverso il suo succo di zucca. Sveglia, Mezzosangue. Questa è un’emergenza e dobbiamo decidere immediatamente cosa fare se non vuoi passare il resto del nostro magico soggiorno qui con Dolohov sotto le coperte!» La dottoressa lo fulminò con lo sguardo, infastidita da quel discorsetto intriso di odiosa, pungente ironia. Premette il tasto di chiamata con più forza del necessario e si portò il telefono all’orecchio, in attesa. Dopo un paio di squilli, la voce profonda e un po’ rauca di Silente attraversò l’altoparlante. «Pronto?» Hermione ricordava ancora quando il professore, circa un anno prima, le aveva chiesto con insistenza di procurargli un cellulare, affascinato dalle tecniche di comunicazione babbane. Ricordò di aver pensato che fosse stato contagiato dallo smisurato entusiasmo di Arthur Weasley nei confronti di qualunque oggetto - dalla paperella di gomma al computer - proveniente dal mondo non magico. Perlomeno Silente aveva avuto il buon senso di capire immediatamente che non era necessario urlare a squarciagola per essere udito dall’altro capo della linea. «Professore» rispose Hermione. «Sono Hermione.» «Oh, mia cara. Sono sollevato di sentirti, anche se a dir la verità non mi aspettavo una tua chiamata così presto. È successo qualcosa?» Il tono gentile del preside fu incrinato da una nota di preoccupazione. «Beh, in effetti sì» ammise lei, sotto lo sguardo impaziente del biondino, che la incitava ad andare dritto al sodo. «Siamo stati attaccati durante il viaggio… Da Antonin Dolohov...» «Siete feriti?» La voce di Silente esplose così forte che Hermione dovette spostare di colpo l’orecchio dall’altoparlante. Forse, in fondo, doveva ricredersi riguardo al buon senso. Attivò il vivavoce e le ultime sillabe di ciò che aveva detto riecheggiarono acute nella stanza. «Noi stiamo bene e siamo arrivati sani e...» «Dolohov è con voi?» «Sì.» Dall’altra parte della cornetta, silenzio. Dopo qualche secondo, si udirono dei respiri sommessi, segno che Silente non aveva avuto un attacco di cuore ed era ancora in linea. «Draco è lì con te?» «Sì.» ripeté Hermione, lanciando un’occhiata al diretto interessato, che nel frattempo guardava con apprensione quello strano oggetto parlante. «Draco.» chiamò Silente. Probabilmente fu quel richiamo a risvegliarlo dalla contemplazione. «Signore.» rispose, la bacchetta sguainata come se il cellulare potesse esplodere e attaccarlo da un momento all’altro. «Sanno che siamo qui, a Praga. E non volevano che ci arrivassimo.» «In che senso?» chiese Silente, dando voce ai pensieri di Hermione. «Dopo aver messo K.O. Dolohov, ho interrogato il pilota per assicurarmi che non ci fossero altri intoppi e sono riuscito a farlo cantare: la rotta prevista era San Pietroburgo, immagino che sia l’attuale covo dei Mangiamorte.» riassunse in breve. «Quindi sapevano dei nostri piani e immagino che sappiano anche perché ci troviamo qui.» Ancora silenzio seguì le sue parole. Hermione non si era accorta di quanto fossero nei guai. Non aveva neanche avuto il tempo di riflettere sull’attacco, di fare congetture... Invece Malfoy aveva già un chiaro quadro della situazione in mente. Un passo avanti a lei, ancora una volta. «È necessario scoprire quanto sanno.» meditò Silente. Dal tono di voce che aveva assunto, Hermione poté facilmente figurarselo sulla sua poltrona ad Hogwarts, le dita ossute che premevano le tempie e i soliti occhialetti a mezzaluna abbassati sul naso. «Dovresti interrogarlo, Draco.» Draco scrollò le spalle, voltandosi verso il corpo adagiato a terra. Non se lo fece ripetere due volte. «Innerva.» sussurrò l’Indicibile, genuflettendosi accanto al Mangiamorte. Dolohov aprì gli occhi di colpo e si guardò intorno disorientato. Draco gli rivolse un sorriso malefico, reso ancor più sinistro dal colorito cadaverico che aveva assunto il suo viso alla luce dei neon. Quel ghigno non aveva mai lasciato presagire nulla di buono. E quella volta non faceva eccezione. «Ed ecco il Bel Mangiamorte Addormentato.» disse Draco con un tono deliberatamente sardonico. «Bentornato tra noi.» Dolohov batté un paio di volte le palpebre, come se non avesse ancora realizzato dove si trovava. Sollevò lentamente lo sguardo su Draco, intontito; probabilmente non aveva neanche colto le parole pungenti che gli erano state rivolte. «Non abbiamo tutta la giornata.» La voce dell’Indicibile schioccò sonora come una frusta. «Chi ti ha mandato?» Il Mangiamorte aggrottò la fronte nell’incrociare lo sguardo lampeggiante del biondino, poi lanciò un’occhiata alle sue spalle, scoppiando in una risatina sprezzante alla vista di Hermione. Il ricordo di parecchi anni prima gli diede un brivido lungo la schiena. Un piacere perverso lo pervadeva ogni volta che faceva del male. Non aveva dimenticato neanche uno dei volti di chi aveva brutalmente assassinato o anche solo torturato... I lineamenti contorti dal dolore, assolutamente indifesi. In suo potere. «Il figlio di un Mangiamorte e una luridissima Mezzosangue, alleati per una nobile causa.» commentò, la voce rauca. «Non l’avrei mai detto.» Il ghigno tirato di Draco si allargò appena e apparve persino meno gelido per una frazione di secondo, appena prima di distendersi in una smorfia. Sollevò la bacchetta all’altezza dell’orecchio, la testa appena inclinata, e sussurrò: «Crucio.» Dolohov si contorse, la mascella tanto serrata da far scricchiolare i denti nel tentativo non riuscito di non urlare. Hermione si portò una mano alla bocca e soffocò un sussulto. Prima che potesse maledire il biondino, una voce tonante si sprigionò dal cellulare: «Draco, fermati.» Silente doveva aver intuito cosa stesse succedendo, ma nonostante tutto aveva mantenuto un tono fermo e perentorio. Il braccio dell’Indicibile tremò appena. «Malfoy, basta!» urlò Hermione, gettandosi su di lui per fermare quello strazio atroce, il cellulare ancora stretto in mano. Poteva anche trattarsi di un essere spregevole che aveva trascorso la sua intera vita a macchiarsi di crimini orribili, ma era pur sempre un essere umano. E quella era pur sempre una Maledizione Senza Perdono. Draco arrestò il flusso di energia che intercorreva tra la sua bacchetta e il corpo scosso dalle convulsioni di Dolohov e abbassò di poco la bacchetta, scrollandosi Hermione di dosso in modo così violento ed improvviso che la Medimaga cadde all’indietro. Nella stanza, non un suono. Solo tre respiri affannati, e silenzio. Silenzio, troppa la rabbia e la vergogna per essere espresse a parole. Silenzio, per lo stupore di fronte ad una reazione tanto aggressiva e apparentemente immotivata. Silenzio, perché il fallimento bruciava troppo per essere pronunciato. Se per qualcuno quella situazione di stallo si era dileguata con la stessa velocità di una sensazione, per altri era durata a sufficienza per mettere a punto i primi contorni di un piano. Ipnotici sguardi d’attesa e d’impazienza incatenati tra loro. Cacciatore e preda. Come un serpente dopo attimi di contemplazione, Dolohov scattò in modo repentino verso Hermione e le cinse le spalle con le braccia. «Una sola mossa, Malfoy, e lei è morta.» sussurrò il Mangiamorte. Una convulsione attraversò la sua mano sinistra, ma la destra rimase ancorata al collo di Hermione, che si dimenava nel tentativo di sfuggire alla presa. «Dolohov.» Fu allora che intervenne Silente, il tono imperioso era tanto reale da far sembrare che il preside si trovasse in quella stanza. Il nome fu pronunciato quasi come una minaccia. «Basta così.» Il Mangiamorte non rispose, ma rimase immobile. Lo sguardo era fisso in quello di Draco, la cui espressione era intellegibile ed irrigidita. Approfittando di quel momento di paralisi e colta da una rabbia improvvisa, Hermione affondò con decisione il gomito tra le gambe di Dolohov, il quale ululò di dolore e lasciò improvvisamente la presa, e si rialzò di scatto, anche se goffamente. Passò il cellulare alla mano sinistra e con la destra sguainò la bacchetta, puntandola contro Dolohov in una posizione identica a quella di Draco. «Non osare toccarmi mai più.» Ogni parola scandita a denti stretti, le guance arrossate e i capelli arruffati. «Cazzo...» ansimò il Mangiamorte, ancora piegato in due dall’intenso dolore. Sollevò lo sguardo su Malfoy e scosse il capo. «Non ti consiglio di portartela a letto, amico...» Altro momento di stasi, era come se il tempo si fosse fermato per l’assurda magia di una Giratempo difettosa. Purtroppo, però, era solo un’impressione. Prima ancora che i due potessero aprir bocca, Dolohov rotolò sull’altro fianco e si rannicchiò su se stesso come un feto, strizzò gli occhi e si Smaterializzò. Chi fosse entrato in quel momento, avrebbe visto solo due matti in procinto di puntare la bacchetta verso il vuoto. I lineamenti di Draco assunsero un’espressione furente. «Cazzo!» E di nuovo, la parola parve dileguarsi nell’eco vuoto del piccolo e squallido bagno.
Dopo un’infinita serie di proteste e parolacce del biondino, erano riusciti a trovare l’uscita di quel labirinto senza fine. Un taxi li condusse verso Praga 1, nel cuore della Città Vecchia. Hermione guardava assente gli enormi palazzi influenzati dallo stile gotico e barocco sfrecciarle davanti e si sentì infinitamente abbattuta. Aveva sempre desiderato visitare Praga, ma di sicuro quando si figurava l’immagine di lei sul Ponte Carlo o di fronte al Muro di Lennon, non immaginava neanche lontanamente che potesse essere spedita lì a svolgere un compito per l’Ordine della Fenice. Per di più, il discorso che Silente le aveva fatto poco prima di salire in aereo l’aveva gettata ancora di più nello sconforto, ed era stato solo allora che aveva realizzato quanto quella missione top secret contasse per il suo ex-preside e di come, date le sue parole, riguardasse l’intera umanità, Maghi e Babbani. «Hermione, mia cara», le aveva detto Silente, «mi dispiace di averti coinvolto in un affare simile, ma non ho avuto scelta. Scrimgeour stava per affidare questo compito così delicato a degli incapaci e non potevo proprio permetterlo...» «Signore, la prego, non si preoccupi... Sono... onorata che la sua scelta sia caduta su di me e farò di tutto per portare a termine ciò che mi ha chiesto.» «Non ho dubbi», aveva riposto Silente sorridendo, «Volevo anche scusarmi per non averla fatta accompagnare da Harry o da Ronald, ma il caso era stato assegnato proprio al signor Malfoy in America, dove ha svolto egregiamente il suo lavoro... Spero che possiate mettere da parte le vostre precedenti incomprensioni per una causa di tale importanza...» «Naturalmente», aveva detto lei, con una sicurezza che in realtà non possedeva, «io e Malfoy passeremo sopra quella insignificanti liti scolastiche...». Hermione di tanto in tanto lanciava occhiate cariche d’ansia e rassegnazione all’ex Serpeverde in persona, che sedeva accanto a lei con una mano sulla fronte a coprirgli gli occhi. Dopo essersi fatti sfuggire Dolohov, non si erano rivolti la parola, cosa che ad Hermione andava benissimo: meglio che scambiarsi insulti tutto il tempo, di sicuro. Forse erano ormai un po’ troppo grandi per quello. Dopotutto, si disse la medimaga, lui sapeva anche essere gentile, e l’aveva ampiamente dimostrato qualche ora prima, durante la loro “rimpatriata” di facciata. Certo, si trattava solo di una finta, però... Stupida, si disse. Credi davvero che sia cambiato? Ha già chiarito le sue intenzioni... Non negava di aver sperato che tra loro due le cose migliorassero ora che erano entrambi cresciuti e costretti a quella convivenza forzata. Anzi, coesistenza. «Siamo arrivati.» annunciò il tassista con uno strano accento. «Benvenuti a Praga. Buona permanenza.» Hermione non represse uno sbuffo incredulo che le regalò un’occhiata sconcertata da parte del tassista. Per lei quella sarebbe stata tutt’altro che una visita di piacere, e soprattutto la sua non sarebbe stata una buona permanenza, non in compagnia di Malfoy. Scendendo dal taxi, sospirò sommessamente ancora con quei pensieri che le roteavano in testa. Piazza della Città Vecchia, anche conosciuta come Piazza dell’Orologio. La Chiesa in stile gotico di Santa Maria di Týn era illuminata da fari potenti non visibili ad Hermione, che creavano un suggestivo effetto luce-ombra. Altre imponenti strutture, anch’esse illuminate, si affacciavano sulla piazza: la Chiesa di San Nicola, Palazzo Kinský e il Municipio con il famoso Orologio Astronomico, da cui prendeva nome la piazza. Dal lato opposto rispetto a dove si trovavano vi era un’enorme statua in bronzo e pietra eretta in memoria di un riformatore religioso, Jan Hus. La neve si posava leggera sull’asfalto e ricopriva ogni cosa, senza discriminazioni. Un manto bianco, puro e compatto, che rifletteva le tenui luci della città. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quella visione magica, si sentiva quasi intimorita da quel luogo così denso di storia e presenze antiche... «Aspetti forse che i galli cantino?» sbraitò Malfoy, chiudendo lo sportello dell’auto. Hermione ignorò il sarcasmo del biondino e si voltò senza degnarlo di uno sguardo. Il taxi si era fermato proprio di fronte ad un edificio del Novecento color sabbia a tre piani. Lateralmente alle finestre del primo piano vergate a chiare lettere brillavano, più scure, le parole “Grand Hotel Praha”. Sotto una tettoia scura ricoperta da uno spesso strato di neve, vi era l’ingresso semplice dell’hotel. Tadan, ecco la sua cella. Mentre si avvicinavano a passi decisi verso il bancone della hall, una luminosa sala di moderate dimensioni, Hermione si accostò al biondino, parlò muovendo appena le labbra, contratte in un sorriso forzato. «Ricorda gli ordini di Silente, Malfoy e ricordati che, ufficialmente, siamo sposati. Quindi niente scenate, niente battute, niente cazzate. Riguardo la roba babbana, lascia fare a me.» Malfoy le rivolse uno sguardo sarcastico e altezzoso, come a dire che anche se ne sapeva poco e niente - più probabilmente l’ultima - sul mondo babbano, sarebbe comunque riuscito a cavarsela. Tuttavia, annuì con espressione di superiorità. Da dietro il bancone, una signora sulla quarantina con scuri capelli corti, lo sguardo annoiato, gli abiti senza una piega, sollevò lo sguardo su di loro, ammirando la piacevole vista di quella coppia apparentemente così ben assortita. Lo sguardo della donna indugiò una frazione di secondo di più sull’algido biondo dal corpo scolpito. Si stampò in faccia il più smagliante dei sorrisi, che rivolgeva unicamente ai suoi clienti, e una candida dentatura fece timidamente mostra di sé da dietro le labbra disegnate dal rossetto da poco ritoccato. «Buonasera, benvenuti al Grand Hotel Praha.» esordì alzandosi, attaccando a parlare direttamente in inglese. Dopo anni di pratica aveva imparato a riconoscere a occhio da dove provenissero gli stranieri. In ogni caso, con l’inglese non si sbagliava mai e, conscia della sua pronuncia perfetta, non stentava a mettere in mostra quella sua capacità. «Posso esservi utile in qualche modo?» Hermione aprì bocca per risponderle, quando il biondino si fece avanti e prese la parola prima di lei. «Abbiamo una prenotazione, a nome del signore e della signora Whitman.» Tom Whitman e Juliet Maddison. Suonavano bene. La donna distolse lo sguardo dalla coppia e digitò il nome sulla tastiera, cercando riscontro al computer. In pochi istanti, le apparve la prenotazione. Annuì. «Naturalmente. L’attico, giusto? Dolce luna di miele, eh?» Al cenno d’assenso stentato di Hermione, la receptionist sorrise e, guardando alle spalle della presunta coppietta felice, fece una smorfia alla vista del facchino. «Portali su prima che faccia giorno.» Nel tono della donna nel rivolgersi al collega, che evidentemente considerava di parecchi gradi inferiore, non c’era traccia della melensaggine di prima. La donna incrociò le braccia e si sporse sul bancone. «La stanza vi piacerà. Dispone di un letto matrimoniale enorme e di una vista panoramica adorabile.» Hermione si ripromise di affrontare il panico scatenato dalle parole “letto matrimoniale” in un altro momento e tentò di concentrarsi. «Non...» «Perfetto, grazie.» la precedette Malfoy. Anche se non l’avrebbe mai ammesso, neanche sotto tortura, in quel momento aveva benedetto con tutta sé stessa la scioltezza con cui riusciva a destreggiarsi quella serpe. La donna assunse un’espressione di educata sorpresa, ma lasciò correre. «Bene. Mi occorrono i vostri documenti, prego.» La dottoressa cercò a tastoni la propria carta d’identità falsa nella borsa, poi tirò fuori quella del suo caro marito e la porse con un sorriso alla donna, senza lasciarsi sfuggire l’occasione di pestare “accidentalmente” un piede al biondino insopportabile, che le rivolse uno sguardo di puro disgusto prima di mascherarlo con un’occhiata bonaria. Ma Draco Malfoy in quel momento si sentiva tutt’altro che bonario. Avrebbe preso a valigiate la Granger e si sarebbe rinchiuso nella comoda suite all’ultimo piano, lasciandola penosamente fuori. Il solo pensiero di dover passare la prima di una lunga serie di notti assieme alla Mezzosangue Zannuta gli provocava un brivido di orrore lungo la schiena. «Le firme e siamo a posto.» disse la receptionist porgendole una stilografica legata da una catenella d’oro alla base della scrivania. Quando anche Malfoy ebbe scarabocchiato un ghirigoro che avrebbe dovuto essere una firma, il sorriso della donna si allargò. Fece un fluido gesto con le mani e indicò loro l’ascensore a gabbia alla sua destra, poi consegnò alla coppietta un pass di plastica, che Malfoy stava per ficcarsi nel portafogli quando Hermione, con nonchalance, l‘aveva afferrato e stretto tra le mani. «Il facchino porterà i vostri...» La donna si interruppe, sporgendosi appena dal bancone con un sopracciglio inarcato. «Oh, vedo che viaggiate leggeri.» «In verità, hanno smarrito i nostri bagagli.» rispose prontamente Hermione. «Dovrebbero farceli avere domattina, o almeno così ci hanno detto.» Ogni volta che usava il plurale si faceva violenza, ma le toccava stringere i denti e inghiottire anche quella pillola amara. L’ennesima della giornata. «Capisco.» annuì, annotando qualcosa su un block notes. «Desiderate la sveglia per domattina?» «Non sarà necessario. Buonanotte... e grazie.» Hermione infilò le carte d’identità dentro la borsa e si diresse a grandi passi verso l’ascensore. Non si scambiarono né una parola né un’occhiata fino a che le porte d’ottone non si furono richiuse e il portiere, che non mancò di lanciare uno sguardo di apprezzamento in direzione delle gambe di Hermione, sceso nuovamente al piano terra. Malfoy la fulminò con gli occhi grigi assottigliati. «Per quale cazzo di motivo mi hai strappato quel cartoncino di mano prima? Quella mi ha guardato come se fossi scemo!» In un altro momento, Hermione avrebbe socchiuso gli occhi e si sarebbe imposta la calma, contando fino a dieci, come minimo, prima di parlare. Sfortunatamente, sfiancata dal viaggio e irritata dalla sola presenza del biondo accanto a lei, non era in vena di paroline dolci. «Beh, magari perché lo sembravi, razza d’idiota!» sbraitò, poi gli gettò il pass in faccia. «Se proprio ci tieni, te lo puoi anche prendere.» «Certo che me lo prendo!» berciò a sua volta il biondo, avvicinandosi tronfio verso la porta con il pass stretto in pugno. Con stupore, notò che non vi era maniglia, allora prese a studiare il piccolo pezzo di plastica tra sue mani. Sembrava un bambino confuso da una grande novità. Sempre in un altro momento, Hermione sarebbe scoppiata a ridere per l’espressione sul suo volto... c’era anche da dire che Malfoy, in un altro momento, avrebbe evitato di manifestare sorpresa di fronte alla Mezzosangue. Silenzio. La punta delle scarpe vertiginosamente alte della mora battevano impazientemente a terra, le gambe incrociate all’altezza del seno, un sopracciglio inarcato come a dire “Visto che non sai fare niente?”. «A che cacchio serve, ‘sto cartoncino?» sibilò infine Draco. La dottoressa si fece avanti, gli strappò il cartoncino in questione dalle mani e lo passò verticalmente attraverso le due fessure a lato della porta in ciliegio, che si aprì senza cigolare. La giovane donna gli scoccò un’occhiata di superiorità ed entrò a testa alta nella suite. Draco, furente, entrò e si sbatté la porta alle spalle. La camera di sicuro non deludeva l’immagine dell’hotel a quattro stelle. La porta si apriva su un soggiorno riccamente arredato con mobili antichi, il parquet ricoperto da tappeti persiani dal valore inestimabile e piccole piante di stelle di Natale erano sparpagliate per l’intera stanza. Superato il salotto, si accedeva ad un’altra camera piuttosto ampia, ma priva del lussuoso arredamento del soggiorno, vi erano solo un cassettone in stile impero e un tavolo rettangolare in ciliegio scuro. Ad est della stanza, si elevava una scala a chiocciola che chiaramente conduceva alla temibile camera da letto. Hermione poggiò una mano sul pomello in ferro battuto della scala e si voltò. Draco si guardava intorno diffidente, misurando a grandi passi la stanza. Quel mondo non gli apparteneva. Entrambi rimasero così, in silenzio, ma la cosa che notarono con orrore era che quell’attico sembrava essere stato arredato proprio per una felice coppia sposata. Loro non erano né sposati, né una coppia, né tantomeno felici.
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